Ciclicamente si riapre il dibattito sulle quote rosa, uno strumento legislativo per attenuare il gender gap ovvero la somma delle discriminazioni sessiste che crea il divario di genere tra uomini e donne, specialmente in ambito lavorativo. Abbiamo deciso di addentrarci anche noi in questo ginepraio. Ma prima, capiamo perché si parla ancora di quote rosa e quali sono le presunte o reali problematiche legate alla rappresentanza femminile nella comunità.
E subito dopo entreremo più nel vivo della questione: le quote rosa funzionano o no?
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Trascrizione dell’episodio e link di approfondimento
Ciclicamente si riapre il dibattito sulle quote rosa, uno strumento legislativo per attenuare il gender gap ovvero la somma delle discriminazioni sessiste che crea il divario di genere tra uomini e donne, specialmente in ambito lavorativo. Abbiamo deciso di addentrarci anche noi in questo ginepraio. Ma prima, capiamo perché si parla ancora di quote rosa e quali sono le presunte o reali problematiche legate alla rappresentanza femminile nella comunità.
SIGLA
Premessa: la prendiamo un po’ alla larga. Facciamoci avanti! è questo il titolo di un saggio uscito nel 2013, scritto da Sheryl Sandberg, attuale direttrice operativa di Facebook. L’esortazione era rivolta a tutte le donne lavoratrici, invitandole a puntare più in alto, a farsi avanti per chiedere posizioni migliori, stipendi più alti, a chiedere di più, ad essere più ambiziose. Le premesse del libro erano e sono tristemente note: solo il 5% dei CEO al vertice di 500 aziende attive negli Stati Uniti è composta da donne. Soltanto il 25% delle posizioni dirigenziali senior e soltanto il 19% fa parte dei consigli di amministrazione. Questi dati sono del 2013 ma in realtà anni dopo l’uscita del libro non è cambiato molto.
L’autrice all’interno del libro propone delle strategie da adottare per sopravvivere ad ambienti di lavoro molto competitivi e ostili, in cui le discriminazioni – sottili o meno – sono all’ordine del giorno. Ci sono per esempio dei metodi di negoziazione per chiedere un aumento o per mostrarsi più assertive. Pur sollevando questioni importanti – come la reticenza delle donne a proporsi per le promozioni lavorative, ad esempio – la Sandberg e i suoi trucchi proposti per il successo sono problematici. Il suo approccio rientra in quello che viene chiamato femminismo trickle down ovvero che gocciola dall’alto verso il basso è attuabile soltanto a una parte di donne, donne come la Sandberg: bianche, istruite, colte e privilegiate. ma di certo il metodo “lean in” di credere più in se stesse non può essere la soluzione magica per donne che soffrono anche altri tipi di discriminazione come quella razziale o le donne e gli uomini transessuali, le sex worker e così via. Il problema di questi individui non è prosperare all’interno del sistema, il problema è il sistema.
In generale l’enfasi sul self-empowerment sposta il focus del discorso dalle politiche sul lavoro e sul genere all’individuo. Quindi è responsabilità tua quella di farti avanti e non responsabilità della società in maniera collettiva ad eliminare le disparità e le disuguaglianze? La studiosa americana bell hooks lo spiega meglio di noi dicendo che Sandberg sembra “l’adorabile sorellina minore che vuole giocare nella squadra dei fratelli grandi” ma senza cambiare le regole del gioco. No, il problema delle donne non è soltanto individuale: non basta cambiare immagine di copertina di facebook e professare il girl power. In generale ad essere messo sotto accusa è questo vocabolario molto legato al potere. Si legge in Perché non sono femminista di Jessa Crispin: Le donne vogliono la parità: vincere ed essere le migliori in un mondo competitivo e violento usando le stessa logica che le ha relegate a ruoli subalterni, imposti. “Crescendo in un sistema che misura il successo con il denaro, che valorizza il consumismo e la competizione, che sminuisce la compassione e il senso della comunità, le ragazze e le donne sono già indottrinate su ciò che devono volere.
Il self empowerment ci permetterebbe di fare davvero qualcosa di buono, se fosse accompagnato da un esame dei nostri desideri e delle nostre definizioni di felicità”.
Quella appena esposta è una diatriba che divide da tempo il femminismo liberale e più mainstream che sostanzialmente sostiene che basterebbe inserire le donne all’interno del sistema di potere per risolvere il problema del sessismo e dall’altro lato il femminismo più inclusivo che invece sostiene la lotta per la fine di quel sistema che comprende altri generi di discriminazioni come quella razziale e di classe, la transfobia ecc…
Non è questa la sede per discutere di queste differenze perché la questione è molto complessa ma a prescindere dalle divergenze sul cosa fare una volta che le donne abbiano conquistato posizioni di rilevanza politica e sociale, se quindi dar fuoco a tutta la baracca o farsi un idromassaggio, rimane comunque il problema di arrivarci a quelle posizioni. E qui entrano in gioco le quote rosa.
Cosa sono le quote rosa. Come sempre ci avvaliamo della Treccani per le definizioni:
Provvedimento (in genere temporaneo) teso a equilibrare la presenza di uomini e donne nelle sedi decisionali (consigli di amministrazione, sedi istituzionali elettive e così via) introducendo obbligatoriamente un certo numero di presenze femminili. Il provvedimento mira a ridurre la discriminazione di genere e in particolare a consentire alle donne di sfondare il glass ceiling (“soffitto di cristallo”), ovvero la barriera invisibile che impedirebbe alle donne di accedere a incarichi prestigiosi e ai centri nei quali si prendono decisioni.
In realtà, a questo va aggiunta una piccola precisazione. Infatti le quote rosa non servono soltanto a combattere la segregazione verticale – ovvero la difficoltà che si incontra nel raggiungere ruoli di leadership in alcuni settori ma anche la segregazione orizzontale ovvero la scarsa presenza di donne all’interno di alcuni settori. La differenza tra segregazione verticale e orizzontale è lampante se prendiamo due esempi come l’editoria e al capo opposto l’ambito STEM.
In editoria le donne sono centrali. Sono le donne a leggere di più (più o meno dalla fine degli anni 80 è così in Italia) e sono soprattutto le donne a voler lavorare all’interno della filiera editoriale. In effetti, chiunque abbia avuto esperienza diretta e indiretta con una casa editrice sa che questo mondo è pieno di traduttrici, redattrici, lettrici. Però è ricco soprattutto di direttori editoriali uomini, manager uomini, presidenti uomini ecc… Ecco questa è segregazione verticale: le donne – come nella moda – non riescono a raggiungere facilmente i ruoli di guida, le posizioni di rilievo e di prestigio, a frantumare il cosiddetto soffitto di cristallo, ad entrare nella stanza dei bottoni.
Al contrario, l’ambito STEM (dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics) è un mondo fatto per lo più di uomini e dove le donne sono ancora troppo poche. L’origine di questo divario è spiegabile in molti modi, la puntata di oggi però si focalizza sul modo in cui risolvere questo problema, le cause sono da rintracciare nel nostro sistema formativo e anche in una cosuccia che si chiama pregiudizio di genialità. Per il quale dall’età di 7-8 anni ogni volta che chiediamo a una bambina di immaginarsi un genio, si immagina un uomo, dando quindi alla categoria maschile doti di obiettività, intelligenza, talento innato. Questo anche perché nell’ambito scientifico abbiamo cancellato dal canone donne di genio, scienziate, inventrici. è pochissimo lo spazio riservato a queste figure, mentre pullulano nei libri di storia gli uomini. La rappresentazione incide moltissimo nell’autostima e nell’auto determinazione degli individui. In pratica, fattori come la conformità alle aspettative sociali, gli stereotipi di genere, i ruoli di genere e la mancanza di modelli di riferimento che orientano le scelte professionali portano le ragazze lontano dagli ambiti STEM. Solo il 59% delle giovani italiane dichiara che otterrebbe ottimi risultati nello studio delle STEM al pari di un ragazzo. La conseguenza è che, secondo lo studio, in Italia solo il 12,6% delle studentesse sceglie un percorso scolastico legato allo STEM, solo il 6,4% lavora nell’ICT e il 13,3% in settori correlati all’ingegneria.
Tornando alle quote rosa. Le cosiddette “quote rosa” in politica sono nate fra gli anni Settanta e Ottanta a causa della sotto-rappresentazione femminile all’interno degli organi politici. Come spesso accade, si sono diffuse prima nei paesi scandinavi e poi nel resto del mondo, allargandosi anche alle aziende e non soltanto ai parlamenti. Anzi l’Italia rappresenta un caso particolare perché di fatto sono state attuate dopo nell’ambito politico soltanto nel 2017 (garantendo l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali nazionali e il limite massimo del 60 per cento per un genere) mentre le quote rosa aziendali erano state già regolate dalla legge del 2011/12 Golfo-Mosca. Nel dettaglio quest’ultimo provvedimento prevedeva l’obbligo per le società quotate in borsa a riservare il 30 per cento dei posti nei consigli di amministrazione alle donne. Leggiamo su Il post che “dal 2012 al 2015 la quota fu del 20 per cento, per consentire un incremento graduale. Anche questo ha portato a un largo aumento del numero di donne nei consigli di amministrazione delle aziende italiane quotate”.
Per capire meglio l’eterna diatriba sulle quote rosa, citiamo un caso mediatico nostrano, avvenuto proprio quest’anno. Durante l’esperienza a Sanremo 2020, in un’intervista all’Huffington Post, la cantautrice Levante ha espresso la propria opinione sulle quote rosa, sollevata dalla scarsa presenza di donne al Festival (solo 5 su 22 artisti). Vado a citare le sue parole: “Sono anni che mi spendo per le donne, ma non sono a favore delle quote rosa. Non ci è dovuto un posto per forza, non abbiamo un deficit. Io mi conquisto quello che mi merito e se sono al festival mi auguro che sia perché la canzone è bella e io sono brava”.
Le parole di Levante mettono in luce la polarizzazione che di solito viene fatta quando si discute di quote rosa tra merito e genere. La discriminazione esiste ma se davvero te lo meriti allora puoi farcela. Oppure si tende a rifiutare le quote rosa per paura di una delegittimazione. Io sono arrivata qui non perché donna ma perché me lo merito. Entrambe le conclusioni comunque partono da un presupposto sbagliato perché in un sistema discriminatorio il merito è un valore arbitrario. In una partita truccata non vince il giocatore migliore. E questo lo spiega bene la scrittrice Michela Murgia che, dopo le dichiarazioni di Levante, ha replicato attraverso le sue Instagram stories: “Molte donne intendono ancora quote rosa come una pretesa che sostituisce il merito, ma il sistema patriarcale discrimina in base al genere e non al merito. Le donne cresciute in ambienti misogini non riconoscono la discriminazione finché non le tocca direttamente. Io ci sono perché me lo sono meritata. Quelle rimaste fuori non lo meritavano abbastanza!”. Se su 22 cantanti ci sono solo 5 donne questo può avere due spiegazioni: o le donne cantano peggio degli uomini, o qualcuno ne è convinto. Andando oltre la musica: 7 donne su 83 rettori, 4 donne su 24 membri del CSM, due sole direttrici di quotidiani in Italia. “Viviamo in un paese che sottovaluta le donne o nega il merito alle donne. E quando si tratta di scegliere si prende l’uomo se è capace e la donna se è eccezionale. Se vuoi far reggere un sistema misogino in eterno, infila una donna in ogni selezione. Sarà lei a difendere il sistema, dicendo alle altre Io ci sono e sono brava, quindi forse siete voi che non ci avete provato abbastanza.
“Per una di noi che ce la fa, cento di noi ci devono provare.” Sono le parole della famosa Alexandria Ocasio-Cortez, deputata newyorkese eletta al congresso durante le elezioni di metà mandato del 2018. Questa frase è tratta da Knock down the House, documentario che segue lei e altre tre candidate durante i mesi prima delle votazioni, mostrando le attività svolte, le difficoltà e la loro determinazione. Le parole riportate sono tratte da una telefonata che la stessa Ocasio-Cortez ha fatto a una candidata di Las Vagas, Amy Vilela, per cercare di spronarla e confortarla dopo essere stata sconfitta alle votazioni.
Le parole della deputata newyorkese racchiudono molto bene la fatica e l’impegno necessario affinché ci sia una maggiore rappresentanza, una maggiore inclusione e una maggiore possibilità di ottenere i ruoli per cui anche le donne studiano, lavorano e si preparano. Dati alla mano sulla situazione rappresentativa del congresso negli Stati Uniti.
Quando fu eletta Ocasio-Cortez, nel 2018 ovvero al 116esimo congresso, c’erano 101 donne alla House e 26 al senato, in entrambi i casi il maggior numero di donne mai registrato al Parlamento, oltre a essere anche una delle formazioni governative più inclusive in termini di diversità etnica. In nessun caso le donne sono però lontanamente vicine alla metà. Una cosa che faccio spesso è contare il numero di donne quando si ha a che fare con gruppi di persone, che sia in ambito politico come in questo caso o anche banalmente a una gara canora.
Sempre Michela Murgia sul numero del 22 agosto di Robinson in cui fornisce, cito il sommario, “Istruzioni pratiche e politiche per non essere mai più ancelle” pone al primo posto proprio questo esercizio. Si legge: “Accorgersi in ogni contesto di quante donne sono presenti e cosa sono state chiamate a fare. Mettersi con la calcolatrice in mano innanzi a trasmissioni televisive, conferenze e dibattiti, festival di ogna natura, task force, formazioni governative e amministrative, liste elettorali, organi della magistratura e delle forze dell’ordine, consigli d’amministrazione aziendale, premiazioni d’ambito, vertici di partito, primariati ospedalieri, rettorati universitari, direzioni di teatri, di giornali, di musei, di organizzazioni sportive, di istituzioni scientifiche e relativi progetti. Contare rende immediatamente palese il dislivello di presenza (e dunque di rappresentazione) di metà della popolazione del paese e spazza via con la forza dei numeri la diffusa presunzione che la parità di opportunità sia ormai un traguardo raggiunto. Smettere di contare o non cominciare affatto certifica come irrilevante l’assenza delle donne dai luoghi in cui si progetta e si governa ogni ambito del paese”.
Quello che vi possiamo suggerire è una volta che il vostro occhio si sarà abituato a scandagliare il numero di donne in tutti questi ambiti avrete anche una percezione diversa delle foto di gruppo o anche banalmente il raggruppamento delle singole fototessere dei rappresentanti di ogni istituzione. Perché se fino ad oggi ci è sembrato normale e naturale vedere platee di uomini bianchi in giacca e cravatta, dopo questo adattamento mentale vi sembrerà quasi strano che ci siano sempre e solo loro. Sono una fotografia che non rappresenta la realtà perché quello che vedrete in giro per strada, a scuola, a lavoro o al supermercato è una maggiore varietà di genere ed etnie.
Ci sono due considerazioni da fare:
- La prima riguarda il fatto che c’è chi pensa che le quote rosa minino il sistema meritocratico ma il sistema non è meritocratico. Ci sono continue discriminazioni non soltanto legate al genere ma anche a etnia e religione. Inoltre la costruzione delle competenze che va a definire il merito di una persona è anch’esso fortemente sbilanciato. Spesso una donna acquisisce meriti nonostante le discriminazioni. Una donna ottiene un lavoro nonostante le discriminazioni. Spesso, al contrario dei suoi colleghi uomini, dimostrando di essere il doppio più meritevole per superare il bias sessista. È il cosiddetto doppio standard che vale anche per il razzismo. Spesso una persona di colore non è autorizzata ad essere mediocre come – spoiler – la maggior parte della gente. No, per essere assunta deve dimostrare di essere in gamba, più in gamba degli altri, per farci dimenticare il colore della sua pelle. In altre parole, ripetiamolo: in un sistema discriminatorio il merito non è così facilmente individuabile perché la partita è truccata. In una gara dei 100 mt non tutti partono dai posti di blocco, c’è chi parte un po’ più indietro e chi più avanti.
- La seconda discriminazione parte proprio dal concetto di merito. Le quote rosa vengono rigettate perché se tra Luigi e Sara si sceglie quest’ultima perché a parità di competenze Sara è una donna, allora questo è pregiudizievole e discriminatorio nei confronti di Luigi. Ok, peccato che al momento il sistema è DI PARTENZA discriminatorio nei confronti non solo di Sara ma di tutte le donne. Quindi va bene accettare una silenziosa discriminazione che avviene quotidianamente quando tra un uomo e una donna viene assunto l’uomo e alla donna vengono fatte domande sulle sue eventuali gravidanze e invece non può essere accettata una regola che va a vantaggio di una maggiore inclusività e differenziazione nell’ambiente di lavoro? Ma mettiamo che ci sia questo favoritismo nei confronti delle donne – dico mettiamo il caso perché matematicamente se su 10 posti, 3 spettano alle donne per legge non mi sembra poi un così grande incubo discriminatorio – ma comunque mettiamo caso ci sia e questo vada a scapito degli uomini, si tratterebbe di uno strumento temporaneo, si parla infatti di discriminazione positiva che per ovvi motivi è diversa, già solo per il fatto che è temporanea e non è sistemica ovvero può attuarsi soltanto in un caso, in un momento e in un ambito molto circoscritto della tua vita. Da sollevare poi ci sarebbe la questione sulla meritocrazia in sé. Chi pensa che il merito sia tutto forse non è mai stato dentro un vero ambiente di lavoro. La meritocrazia nel mondo del lavoro è una concezione molto fumosa e pensare che le persone vengano assunte solo per criteri oggettivi è essere naif. Le persone non si assumono solo sulla base delle competenze tecniche ma anche relazionali, umane, per un punto di vista diverso, per il valore aggiunto che possono portare. Il merito non può essere “oggettivo”.
Tutto questo sempre avendo in mente il politically correct contro cui ci si scaglia sempre, senza neanche capire cosa vuol dire. La realtà è che all’interno di un’azienda oggi valorizzare le diversità e promuovere l’inclusione rappresentano un’opportunità per innovare, migliorare l’ambiente di lavoro e favorire la produttività. Lo confermano i risultati di alcuni studi, come un documento di McKinsey dal titolo “Delivering through Diversity” (2018) secondo cui le aziende che realizzano iniziative in favore della diversità di genere e quelle che presentano una composizione etnica mista hanno possibilità di successo superiori rispetto alle altre, rispettivamente del 15% e del 35%. Il rapporto “The Disability Inclusion Advantage”, realizzato da Accenture nel 2018, dimostra poi come le aziende che eccellono nell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità abbiano in media ricavi superiori del 28% rispetto alle altre. Ancora: un altro rapporto McKinsey evidenzia come le imprese con un maggior numero di donne collocate nelle posizioni strategiche dal punto di vista gestionale mostrino una redditività superiore del 10% rispetto alla media del settore mentre, in Italia, le società quotate in cui si registra la presenza femminile nel cda ottengono un utile operativo medio di oltre il 21% rispetto alle società che non hanno queste presenze.
Ma sì noi continuiamo pure a parlare di dittatura del politicamente corretto. Nel frattempo due numerini: secondo il Report del 2019 del World Economic Forum, 99,5 sono gli anni che ci separano dalla totale parità di genere. 5,3 sono invece i miliardi di dollari di cui aumenterebbe il Pil mondiale se il gender gap venisse finalmente azzerato.
Ora, in un mondo ideale, le quote rosa non ci dovrebbero essere, questo è chiaro. Sono delle forzature. Altrettanto chiaro è che le quote rosa non sono uno strumento perfetto.
Accettare la discriminazione positiva è comunque un paradosso: per ottenere una società più giusta, viene introdotto un criterio ingiusto. Qualche anno fa la scrittrice e giornalista Lea Melandri disse all’Espresso che le “quote rosa” nascono «dall’idea della donna come di una minoranza da difendere e rappresentare”. Anche più recentemente la sindaca di Roma Virginia Raggi si espresse in maniera similare sostenendo appunto che le donne non fossero dei panda. Inoltre una critica che spesso viene dal femminismo è: come può il sistema che discrimina imporre ulteriori meccanismi dall’altro per fermare quella discriminazione?
Eppure la domanda è: possono servire per alleggerire il bias esistente? Perché al di là dei discorsi sul sesso degli angeli, i numeri parlano.
Fino al 2018 l’Italia ha avuto meno di 100 ministre donna su un totale di 1.500: circa metà delle quali, peraltro, guidavano ministeri senza portafoglio. Nel governo di Matteo Renzi del 2014 le donne ministre erano 8 – metà del totale, un caso eccezionale – ma già dopo meno di due anni erano meno di un terzo, 5 su 16, e nel primo governo di Giuseppe Conte sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle erano ancora meno, 5 su 18.
Alla luce di tutto questo, dovremmo aspettare che magicamente il sessismo scompaia o possiamo giustificare degli strumenti che riequilibrino la situazione?
Il bias – che noi non controlliamo – ci porta ancora oggi a considerare il femminile come inferiore e il maschile come più autorevole. Il che porta ad assumere con più facilità persone di sesso maschile. Il circolo si autoalimenta quando non troviamo donne in posizioni di potere e quindi deduciamo che una maggioranza di uomini in queste posizioni equivale a dire che se lo sono meritato in quanto più bravi delle donne.
Si ricorre alla legge per cercare di spezzare il cerchio e aggirare il bias cognitivo, garantendo uno spazio maggiore alle donne e permettendo in questo modo agli stereotipi di genere di perpetuarsi.
Ma tutto ciò funziona?
L’efficacia delle quote rosa è difficile da calcolare soprattutto perché si tratta di smantellare un sistema sessista, non soltanto un singolo ambiente di lavoro. E questo richiede decenni. Il sessismo incide su tutti gli aspetti della vita di una donna quindi potete immaginare quanto sia difficile che un singolo strumento riesca a scardinare un problema endemico. Tuttavia ci sono delle evidenze.
In Italia le “quote rosa” previste dalla legge del 2017 hanno prodotto il numero di donne più alto mai registrato in Parlamento: nei giorni dell’insediamento della nuova legislatura erano 334, il 35 per cento del totale, contro le 299 della legislatura precedente.
In questo però ci batte senz’altro il Sud Africa che la scorsa estate ha annunciato un nuovo governo in cui, per la prima volta nella storia del Paese, la metà dei ministri sono donne. Tra parentesi, in Italia in 70 anni di Repubblica nessuna donna ha mai presieduto un Governo.
È ancora migliore il dato delle donne assunte nei cda delle aziende per via della legge Golfo-Mosca. Nei cda italiani le percentuali si aggirano intorno al 30 per cento.
Se ne deduce che no, le quote rosa non hanno discriminato gli uomini visto che nonostante le donne siano la maggioranza della popolazione, siano ancora sottorappresentate, semplicemente però lo sono un po’ meno rispetto al passato.
La legge Golfo-Mosca del 2011 presenta un “periodo di scadenza”, tre mandati dall’entrata in vigore. Quindi, a partire dal 2020, progressivamente, ad ogni rinnovo di consiglio non ci sarà più l’obbligo di riservare qualche poltrona alle donne.
In realtà però c’è ancora il Codice di autodisciplina delle società quotate, più conosciuto come il Codice di Borsa che protegge la diversità all’interno dei cda.
Ma esistono strumenti diversi e magari complementari rispetto alle quote rosa?
Due esempi su tutti:
- Non è un segreto che uno degli ostacoli per ridurre il gender gap lavorativo sia la difficoltà per le donne di conciliare carriera e famiglia, soprattutto all’inizio anche se i problemi del lavoro di cura delle donne non iniziano né si esauriscono durante il periodo neonatale. Ad ogni modo, il congedo parentale è un modo per incentivare le donne a continuare a lavorare anche dopo il parto, nonostante le difficoltà, ed è anche una misura fondamentale per garantire la tutela sia della famiglia sia dei tassi di occupazione. Se il congedo materno è ancora in molti paesi non pagato oppure ridotto a poche settimane, molto poco si discute del congedo di paternità. Prendiamo il caso dell’Islanda. Oltre ad essere stato tra i primi paesi al mondo a introdurre un congedo di maternità di sei mesi retribuito, nel 2000 ha introdotto l’aspettativa anche per i papà. E no, non stiamo parlando dei 4 giorni a casa. La tutela della famiglia non è solo a carico delle donne. La stessa cosa accade in Svezia che la detentrice del record mondiale per permessi di paternità. Nove padri su dieci usufruiscono di un congedo con una durata media di tre/quattro mesi.
- Nel caso delle assunzioni un altro strumento altamente efficace è quello delle audizioni alla cieca, adottato per esempio dalla New York Philarmonic Orchestra dagli anni 70 per reclutare musicisti. Prima di questo provvedimento la presenza di musiciste donne all’interno dell’orchestra era pari a zero. Dagli anni 80 in poi le donne sono diventate il 50%. E oggi è il 45%. Un semplice paravento che nasconde il genere del musicista è bastato per far assumere il 50% in più di donne. Strano, eh? Questo metodo chiaramente non è attuabile in tutti gli ambiti di lavoro dove è necessario un contatto ravvicinato con la persona da assumere e dove entrano in gioco altri fattori. Ma è un esempio folgorante per capire quanto profondamente agisca il pregiudizio di genere e quanto sia invisibile.
Invisibili, Criado Perez
Perché non sono femminista, Jessa Crispin
Facciamoci avanti! Sherley Sandberg
http://www.treccani.it/enciclopedia/quote-rosa/
https://www.senate.gov/CRSpubs/b8f6293e-c235-40fd-b895-6474d0f8e809.pdf
https://en.wikipedia.org/wiki/116th_United_States_Congress
https://www.robadadonne.it/184806/quote-rosa-dove-sono-donne/