Davanti a Notre Dame in fiamme tutti commossi…ma ai bambini in Africa chi ci pensa, eh? Raccolte fondi per i koala bruciati dagli incendi in Australia ma per gli 11 milioni di bambini senza cibo né acqua in Yemen tutto tace. Forse i koala sono più tenerini…
Questo è un coro che probabilmente avete già sentito. O addirittura a cui vi siete uniti, sulla scia di un’indignazione comprensibile. Sì, perché – a costo di risultare antipatici – una verità di fondo c’è. Eppure, a primo acchito, suona più come un nastro infinito di lamentele. Chi si indigna condivide, chi si lamenta di chi si indigna e condivide lamentele su quanto quelli che s’indignano abbiano stufato e quelli che proprio non ne possono più chiudono tutto e vanno a fare altro perché più infastiditi da quelli che si lamentano che dalle persone che magari anche in buona fede hanno condiviso un canguro in difficoltà.
Dopo l’incendio della Cattedrale di Notre-Dame abbiamo provato un sentimento a cui purtroppo ci stiamo abituando: l’impotenza. Ci siamo sentiti molto coinvolti, abbiamo provato dispiacere e ci siamo sentiti inutili davanti a una situazione drammatica e sconvolgente per cui, di fatto, non avremmo potuto fare nulla (a meno che voi non siate dei vigili del fuoco per cui sì, le vostre capacità potevano tornare utili).
Come si gestisce questa matassa di emozioni? Come si tiene a bada l’indignazione affinché non diventi un muro contro cui sbattere senza poter andare avanti?
Ne abbiamo parlato nell’episodio di questa settimana che – tra le altre cose, parla di empatia, benaltrismo e del nostro atteggiamento verso le notizie.
Lo trovate come sempre dappertutto, da YouTube alle principali piattaforme d’ascolto.
Ascolta “#26 – Indignazione selettiva” su Spreaker.
Trascrizione dell’episodio
ILE
Davanti a Notre Dame in fiamme tutti commossi…ma ai bambini in Africa chi ci pensa, eh? Raccolte fondi per i koala bruciati dagli incendi in Australia ma per gli 11 milioni di bambini senza cibo né acqua in Yemen tutto tace. Forse i koala sono più tenerini…
Questo è un coro che probabilmente avete già sentito. O addirittura a cui vi siete uniti, sulla scia di un’indignazione comprensibile. Sì, perché – a costo di risultare antipatici – una verità di fondo c’è. Eppure, a primo acchito, suona più come un nastro infinito di lamentele. Chi si indigna condivide, chi si lamenta di chi si indigna e condivide lamentele su quanto quelli che s’indignano abbiano stufato e quelli che proprio non ne possono più chiudono tutto e vanno a fare altro perché più infastiditi da quelli che si lamentano che dalle persone che magari anche in buona fede hanno condiviso un canguro in difficoltà.
VALE
Non lo trovate un po’ soffocante? Non sentite anche voi la situazione degenerare? Non vi sembra che in tutti gli scenari ci sia un’escalation di sentimenti radicalizzati che inevitabilmente si scontrano? Ma soprattutto, chi critica può sempre sentirsi con la coscienza pulita perché loro dell’Australia lo sapevano dall’inizio quindi oh beh, sono gli hipster della notizia? No, certo che no. Ma non solo loro, nessuno di noi può, di fatto, avere la coscienza pulita perché spoiler: non siamo onniscienti e onnipresenti. E, altro spoiler: in realtà va benissimo così.
*SIGLA* – MOOSECA
ILE
Dopo l’incendio della Cattedrale di Notre-Dame abbiamo provato un sentimento a cui purtroppo ci stiamo abituando: l’impotenza. Ci siamo sentiti molto coinvolti, abbiamo provato dispiacere e ci siamo sentiti inutili davanti a una situazione drammatica e sconvolgente per cui, di fatto, non avremmo potuto fare nulla (a meno che voi non siate dei vigili del fuoco per cui sì, le vostre capacità potevano tornare utili). La vicinanza geografica ha acutizzato maggiormente questa matassa di emozioni e sentimenti, soprattutto perché molti (noi due comprese) abbiamo avuto modo di visitare quella meravigliosa cattedrale e nei momenti in cui non si sapeva se la chiesa sarebbe sopravvissuta all’incendio abbiamo temuto che sparisse per sempre. Sembra naif ribadire che Notre Dame non è un semplice edificio ma un simbolo, uno dei molti simboli della nostra cultura, della nostra arte, un punto di riferimento nel nostro mondo. Provare questi sentimenti non è affatto sciocco o sbagliato perché fa parte di un più ampio sentimento di appartenenza che – se non ci fosse – sarebbe preoccupante. Anche noi eravamo dispiaciute e anche noi abbiamo seguito le news per capire come sarebbe andata a finire e non ci siamo mai sentite sciocche o in errore. Il livello di coinvolgimento provato è diverso tra varie persone e spesso è basato su un’educazione sentimentale di cui possiamo sapere poco. Subito dopo la diffusione della notizia sono, come sempre, partite delle raccolte fondi per cercare di aiutare la ricostruzione della cattedrale, arrivando velocemente a superare il miliardo di euro.
VALE
Ora, chiunque abbia mai organizzato o partecipato a una raccolta fondi, sa quanto è difficile raggiungere i risultati prefissi. Sia la rapidità sia l’importo raggiunto per Notre Dame hanno subito fatto pensare a un zionale e ha messo in luce che chiaramente chi donava non puntava unicamente a ricostruire un edificio ma a far sentire l’appartenenza a un determinato mondo, a quella stessa umanità che quell’edificio l’ha costruito secoli addietro. C’era un valore sentimentale enorme dietro alla donazione. E sì, molti si sono indignati perché è davvero paradossale che così tante persone si mobilitino per una chiesa, per un oggetto e non invece per aiutare le tante persone in difficoltà presenti nel mondo tra guerre e dittature, fra le tratte di esseri umani e i conflitti civili. E sì, avete ragione. Notre Dame è solo una “cosa” mentre la vita di una persona vale sempre molto di più. Eppure Notre Dame non è solo una cosa ma una storia, la storia della nostra civiltà, la storia di cosa è capace di fare l’Uomo. Non il singolo, ma l’insieme. C’è una frase di Dostoevskij che rende bene l’idea – per quanto non condivisibile da molti – di questo sentimento paradossale ma presente nell’animo umano. Io amo l’umanità, però mi meraviglio di me stesso: tanto più amo l’umanità in generale, tanto meno amo i singoli uomini, presi separatamente, come persone distinte. Non di rado nelle mie fantasticherie ho formulato piani appassionati per servire l’umanità forse mi sarei davvero fatto crocifiggere per gli uomini, se ce ne fosse stato improvvisamente bisogno, ma intanto non sono capace di vivere due giorni nella stessa stanza con qualcuno, e lo so per esperienza. Non appena qualcuno mi sta vicino, subito la sua personalità soffoca il mio amor proprio e limita la mia libertà. In sole ventiquattr’ore arrivo a odiare le persone migliori del mondo: uno perché è troppo lento a pranzo, l’altro perché ha il raffreddore e si soffia il naso di continuo. Divento nemico degli uomini non appena qualcuno mi sfiora. In compenso avviene sempre che più odio gli uomini presi singolarmente, più ardente diventa il mio amore per l’umanità in generale’. Ma allora c’è solo da disperarsi?
ILE
Biologicamente, gli uomini – che sono degli animali, ricordiamolo – sono portati alla lealtà verso piccoli gruppi come una tribù, un gruppo familiare, una cerchia di amici, ma non è affatto naturale per loro provare lealtà per milioni di perfetti estranei. Queste forme di lealtà di massa si sono manifestate solo nelle ultime migliaia di anni sotto forma di grandi narrazioni. Per intenderci: le religioni, lo Stato, la Storia ecc… che poi man mano si sono sempre più laicizzati. Quindi oggi crediamo in altri “miti” come quello individualista. Senza questi sentimenti di appartenenza, probabilmente l’uomo vivrebbe nel caos. Ecco perché non bisognerebbe condannare tutte quelle persone che in tutto il mondo hanno deciso di “riparare” Notre Dame e quindi di preservare l’Idea di Bellezza e Umanità che nel loro immaginario quel simbolo rappresentava. Quello stesso sentimento di Empatia, va coltivato anziché giudicato. Come abbiamo già detto prima, la lealtà dell’Uomo verso l’Uomo è limitata. Questo passaggio lo spiega molto meglio di noi il sociologo israeliano Harari di cui riportiamo un passo tratto da 21 lezioni per il XXI secolo, edito da Bompiani.
Sebbene nel corso del XXI secolo gli esseri umani possano raggiungere uno statuto divino, nel 2018 siamo ancora animali dell’Età della pietra. Per poter prosperare, abbiamo ancora bisogno di trovare i nostri riferimenti fondamentali nel contesto di piccole comunità. Per milioni di anni gli umani si sono adattati a vivere in gruppi che non superavano poche dozzine di membri. Persino oggi la maggior parte di noi trova impossibile conoscere davvero più di centocinquanta individui, a prescindere da quanto numerosi siano gli amici su Facebook di cui ci vantiamo. Senza questi gruppi, gli umani si sentono soli e alienati.
Purtroppo negli ultimi due secoli le piccole comunità sono andate scomparendo. Il tentativo di rimpiazzare gruppi di dimensioni contenute i cui membri si conoscono a fondo fra loro con comunità immaginarie come le nazioni e i partiti politici potrebbe non essere stato coronato da un successo pieno. I vostri milioni di fratelli appartenenti alla famiglia nazionale e i vostri milioni di compagni appartenenti al partito comunista potrebbero non fornirvi quel senso di calda intimità che un singolo, vero fratello o amico può darvi. E così le persone si ritrovano a vivere vite sempre più solitarie”.
VALE
Risulta allora molto comprensibile la sensazione di essere inondati da una massiccia, enorme e ingestibile quantità di contenuti che ci fa sentire sopraffatti, innervositi e annoiati quando praticamente chiunque sta parlando dello stesso evento catastrofico per cui non possiamo fare assolutamente niente. Soprattutto se sembra la cosa più importante al mondo in quel preciso istante. Non possiamo provare empatia e indignazione per tutto, altrimenti vivremmo una vita impossibile. Avete donato 5 euro per la ricostruzione? Bene. Non lo avete fatto? Bene lo stesso.
Però, anche se non possiamo addestrare il nostro cuore a sentire lo stesso shock per tutte le notizie terribili di cui siamo circondati, possiamo pensare lucidamente e cercare di fissare delle priorità razionali per capire cos’è davvero importante. Cerchiamo di approfondire meglio questo aspetto.
Il filtro che ognuno di noi possiede e con cui decide di raccogliere informazioni serve anche a questo. E’ impensabile credere di poter essere informati su qualsiasi cosa. Pensare di essere aggiornati su ogni tragedia, dramma, catastrofe, ingiustizia, guerra e violenza che avviene al mondo è non solo complicato e praticamente impossibile, ma logorante dal punto di vista della propria salute mentale. In una puntata di Scrubs (per la precisione la quarta della seconda stagione – ringraziamo il nostro amico Niccolò e la sua memoria plasmata su quella serie tv per aver individuato con notevole velocità l’episodio) una delle protagoniste, Elliot, vuole a tutti i costi entrare nelle grazie del suo responsabile, il dottor Cox che le affida un compito piuttosto spiacevole, dovrà comunicare lei tutte le cattive notizie che capiterà di dover riferire ai pazienti in cura. La ragazza accetta pur di acquisire valore agli occhi del proprio capo senza considerare gli effetti che questo compito potrà avere sulla sua stabilità emotiva. Ovviamente Elliot ne uscirà devastata e il suo capo le farà capire che non è necessario sabotare se stessi per compiacere agli altri.
Pensate se una cosa simile dovesse succedere nella realtà. Pensate di dover gestire e processare a livello emotivo tutto quello che di brutto succede al mondo. Non solo non sarebbe sano per la vostre psiche ma, ripeto, impossibile.
ILE
L’empatia è una caratteristica personale importantissima, decidere di classificarla in base al grado di notiziabilità dell’evento rischia di svilirne la positività. Proviamo a spiegarci con un altro esempio tratto da un discorso di Ed Winters, un ragazzo inglese vegano che fa informazione su questo aspetto della sua vita. Durante il suo intervento confronta l’empatia che le persone provano per diverse categorie di animali, specificando che in alcune parti del mondo vengono uccisi e cucinati cani e gatti, cosa che se avvenisse nei nostri Paesi scatenerebbe non poco sdegno. Racconta come durante le Olimpiadi in Corea del Sud del 2018 molte persone si indignarono perché in quel Paese viene offerta e consumata la carne di cane. Molti infatti proposero che gli atleti boicottassero l’evento sportivo per questo motivo e li celebrarono quando alcuni di loro riuscirono a salvare dei cani (per tornare poi a casa e consumare carne di animali differenti). La definisce un’ipocrisia morale della società per cui determinati animali sono differenti da altri e soprattutto si chieda come mai molti di noi si arrabbino o restino turbati nel sapere che i cani vengano feriti e uccisi ma ridano delle persone che provano gli stessi sentimenti nei confronti di un maiale, una mucca o un pollo.
Però.
Eh sì, c’è un però. Non possiamo essere informati su tutto, è vero, e non possiamo nemmeno stare sempre su un pulpito a puntare il dito contro un diffuso sentimento di dispiacere, ma non è che la nostra sensibilità ha subìto qualche deviazione nel mentre? Possibile che l’esplosione di autobombe che causano centinaia di morti non siano più, nella maggior parte delle volte, notizie che ci muovono verso lo sdegno e la voglia di cercare di fare qualcosa per riuscire a cambiare quanto sta succedendo? Ci stiamo lentamente desensibilizzando?
Il mondo Occidentale è sconvolto, shockato e impietosito davanti a uccisioni, incidenti e attentati che avvengono entro i propri confini. Gli attentati a Parigi e a Londra sono sì terrificanti, in molti casi ci sono state delle vittime, ma niente a che vedere con gli attentati in zone di guerra nel Medio Oriente. Sempre Harari, sempre nello stesso saggio, ci fornisce dei numeri interessanti su cui dobbiamo riflettere: Dopo l’11 settembre 2001, ogni anno i terroristi hanno ucciso circa cinquanta persone nell’Unione Europea, circa dieci negli Stati Uniti, circa sette in Cina, e poco sopra le 25.000 in tutto il mondo (la maggior parte delle quali in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria). Mentre ogni anno gli incidenti automobilistici uccidono circa 80.000 europei, 40.000 americani, 270.000 cinesi e 1,25 milioni di individui nel complesso. Il diabete e la glicemia alta mietono fino a 3,5 milioni di vittime all’anno, mentre arrivano a circa 7 milioni i decessi imputabili all’inquinamento atmosferico. E allora perché abbiamo più paura del terrorismo che dello zucchero, e perché i governi perdono le elezioni a causa di sporadici attacchi di terroristi ma non a causa del cronico inquinamento dell’aria?”
VALE
La risposta è molto semplice: gli uomini non sono razionali, l’elettorato non è razionale e grandissima importanza hanno le narrazioni. Ecco perché è cruciale non raccontare l’emergenza climatica solo dal punto di vista dei dati, anche se sembrerebbe la strada più giusta. Le persone non seguono solo i dati, forse un giorno, ma non oggi. Le persone sono legate a delle Storie, storie di appartenenza, storie in cui si sentono rappresentati ed esercitano l’Empatia seguendo questi schemi. Ecco perché donano per Notre Dame ma non sono aggiornati sul conflitto palestinese. Sta a noi però mettere le cose nella giusta prospettiva. Anche se emotivamente siamo più vicini a delle storie e quindi a degli eventi piuttosto che ad altri. Il contagio emotivo ha la grande capacità di offuscare la razionalità con cui mettere in proporzione eventi simili. Diamo per scontato che in Siria muoiano centinaia di persone, viviamo in un periodo di facile indignazione in cui però paradossalmente siamo anche desensibilizzati verso situazioni che conosciamo da più tempo e per cui troviamo quasi normale certi esiti, e non sarà sicuramente accusandoci a vicenda di empatia opportunista che risolveremo questo problema.
A chi dare quindi priorità? Dove decidere di porre la propria attenzione e verso quale situazione problematica incanalare le proprie energie?
Non è sempre chiaro visto che i media non aiutano. Mi è venuto in mente recentemente un esempio lampante. All’inizio di Novembre sono uscite delle importantissime inchieste di Associated Press e Reuters su Soleimani il generale iraniano recentemente ucciso da un attacco mirato degli Stati Uniti. Peccato che in quei giorni Marco Carta era stato assolto dalle accuse di furto quindi indovinate un po’ a quale notizia si è scelto di dare visibilità sulle pagine dei nostri giornali?
ILE
Capire forse i meccanismi dell’empatia può aiutarci a delineare meglio il quadro. Su Internazionale, Dan Crimston scrive: “È molto più facile provare empatia per una situazione che, in un modo o nell’altro, avrà fine. Le questioni umanitarie come i richiedenti asilo o la mancanza di cibo nel continente africano appaiono problemi immensi, spesso impossibili da risolvere definitivamente. Simili questioni, quindi, scompaiono di fronte a quelli che consideriamo problemi più urgenti e di più immediata soluzione. Anche il modo in cui definiamo le persone è fondamentale nel determinare la nostra risposta”. Capire chi è la vittima e chi è il “cattivo” in maniera immediata, genera più velocemente empatia. Mentre in situazioni più complicate e di lungo corso, come le guerre, è difficile capirci qualcosa.
La realtà è che l’empatia è un sentimento scivoloso. Ancora Olivia Burkeman scrive: “il problema è che l’empatia, lo sforzo di sentire o capire quello che provano gli altri, non sempre ci aiuta a fare del bene. Tanto per cominciare, ci è più facile provarla per le persone che hanno un bell’aspetto e per quelle della nostra stessa razza, quindi più ci lasciamo guidare dall’empatia, più rischiamo di essere influenzati da questi pregiudizi. Un’altra trappola è il cosiddetto effetto della vittima identificabile, che ci fa preoccupare di più per un unico bambino scomparso che non per le migliaia che potrebbero essere danneggiati da una certa politica del governo, per non parlare delle vittime ancora non nate del futuro riscaldamento globale”.
Sembra quindi che dovremmo dare ragione allo psicologo di Yale Paul Bloom, il quale sostiene: il mondo ha bisogno di un po’ meno empatia. Sì, lo so che suona male, “è come dichiarare che odiate i gattini”. Ma a volte evitare di mettersi nei panni degli altri è il modo migliore per prendere decisioni. Più che di empatia, sarebbe meglio parlare di “compassione”. un sentimento più freddo e razionale. “L’empatia ha un aspetto positivo nella fruizione dell’arte e, talvolta, nei rapporti intimi. Il problema si pone, invece, quando l’empatia viene usata per capire e prendere decisioni ai casi più complessi, che sono poi i casi politici, sociali ed economici”. Come abbiamo già fatto notare, l’empatia è uno strumento imperfetto, che ci fa preferire i pochi ai molti, spesso in maniera razzista, classista e socialmente determinata. Abbiamo una capacità limitata di sentire il dolore degli altri e spesso tendiamo a identificarci con chi ci ricorda noi stessi e la nostra vita. “Is part of the reason why governments and individuals care more about a little girl stuck in a well than about events that will affect millions”. Insomma, l’empatia non è sempre la scelta giusta per agire in maniera etica.
VALE
Proviamo a riassumere. Le notizie – anche quelle più gravi – scompaiono con una rapidità allucinante dai nostri schermi, soprattutto perché di crisi il nostro tempo ne sta vivendo parecchie e il ricambio tra un disastro e l’altro è continuo.
Il nostro compito, a livello etico, è anche quello di non far scomparire dal nostro orizzonte i problemi di più lungo periodo, evitando di trasformare le narrazioni e le notizie in una sequela infinita di emergenze e crisi temporanee. Possiamo mettere in prospettiva gli eventi soltanto guardando con occhio critico ai conflitti che permangono da lungo tempo e che spesso proseguono in sordina, nonostante abbiano effetti disastrosi sullo scenario geopolitico. È questo il caso del cambiamento climatico, dei conflitti energetici e della situazione medio-orientale, per esempio.
Proprio per questi motivi durante l’episodio di oggi abbiamo deciso di dare rilevanza a una questione che è al centro del dibattito mediatico a intermittenza. Mentre invece è un focolaio mai spento sui territori implicati. Stiamo parlando della questione palestinese, un tema complesso e difficile da riassumere ma . Abbiamo deciso di intervistare Gloria Baldoni (…presentazione che poi ci fornirà), attivista del BDS (…)
- Perché il conflitto arabo-israeliano è una questione globale? In gioco ci sono tanti aspetti: il nazionalismo, il principio di autoderminazione dei popoli, le guerre religiose, il terrorismo, le interferenze delle altre potenze internazionali…
- Dopo 70 anni non c’è ancora una risoluzione al conflitto. A chi appartiene questo fallimento? Manca l’interesse nella pace?
- Di fronte a conflitti così complessi, come è possibile seguire una scelta etica? Perché hai deciso di aderire ai BDS, vuoi presentarci il movimento?
- Qual è la soluzione che auspicate?
- mi ha colpito un articolo di Amira Hass, una giornalista israeliana che vive in Cisgiordania che ha intitolato il pezzo: Ai palestinesi non resta che odiare. Anche se riusciremo a concludere questa guerra, pensi che queste fratture possono essere risanate?
VALE
Condividere un’immagine, una notizia, donare dei soldi per Kangaroo Island possono essere azioni che ci fanno sentire bene sul momento, ci fanno sentire parte di una possibile soluzione, ci fanno credere che sì, anche noi nel nostro piccolo siamo riusciti a farlo e in moltissimi casi è vero (chissà, magari abbiamo veramente contribuito a salvare un koala in più o a garantire un pasto a uno sfollato a causa degli incendi), ma ce ne saremo scordati dopo poco. Perché sì esistono delle priorità, ci sono delle notizie più importanti e ci sono avvenimenti che dovrebbero coinvolgerci di più e altri che dovrebbero essere circoscritti a un aggiornamento durante il telegiornale.
Vogliamo concludere con l’ennesima citazione a Yuval Harari che ha questa grandissima capacità di inquadrare i singoli fenomeni in un quadro generale, per qualcuno è anche un difetto, però, qui ci è utile.
“Nei secoli passati le identità nazionali si formarono per consentire di governare problemi e cogliere opportunità che erano ben al di là della portata delle singole tribù locali, e che solo quella più ampia collaborazione poteva sperare di gestire. Nel XXI secolo le nazioni si trovano nella stessa situazione delle antiche tribù: hanno cessato di essere la giusta struttura per gestire le sfide più impegnative di questa epoca. Abbiamo bisogno di una nuova identità globale, perché le istituzioni nazionali non sono in grado di affrontare e risolvere una serie di situazioni difficili mai verificatesi prima. Ora abbiamo un’ecologia globale, un’economia globale e una scienza globale – ma siamo ancora bloccati con le sole politiche nazionali”. “Piuttosto, globalizzare la politica significa che le dinamiche politiche all’interno dei paesi e anche delle città dovrebbero assegnare molte più risorse e investire molte più energie per i problemi e gli interessi globali.”
ILE
Anche noi quindi vorremmo concentrarci di più sulle notizie che “restano”, siamo alla disperata ricerca di una rilevanza sia nel modo in cui ci informiamo sia nelle battaglie che scegliamo di abbracciare. Speriamo di avervi spinto a fare lo stesso o ad aprire quanto meno un focolaio di riflessioni su come funziona l’empatia nel vostro agire politico e filantropico.
Fonti e approfondimenti
Ed Winters, On being Vegan:
https://www.youtube.com/watch?v=Z3u7hXpOm58
Against empathy, Paul Bloom: https://www.youtube.com/watch?v=WWWNUa6kmqE&feature=emb_title
XXI lezioni per il XXI secolo, Yuval Harari
L’empatia per i ragazzi tailandesi non vale per tutti, Dan Crimston, The Conversation, Regno Unito
https://www.internazionale.it/opinione/dan-crimston/2018/07/10/empatia-ragazzi-tailandesi
Restiamo nei nostri panni, Oliver Burkeman, giornalista
https://www.internazionale.it/opinione/oliver-burkeman/2014/09/22/restiamo-nei-nostri-panni