Date, swipe, match. Sono forse i nuovi termini del vocabolario sentimentale di noi millenial?
Il mondo delle relazioni non è mai stato semplice e da quando le app hanno colonizzato le nostre vite si è aggiunta forse una complicazione in più? O è forse vero il contrario e la tecnologia invece ci semplifica la vita? Ne parliamo nella puntata di oggi in cui non ci limiteremo a passare in rassegna alcune delle dating app più popolari ma usiamo questo appiglio per approfondire il più annoso tema: millenial e relazioni. Dal ghosting al dating seriale, dalla convivenza alla singletudine. Il mondo dei sentimenti sta diventando sempre più liquido, più freddo, più complicato? Ha a che fare con la nostra generazione? Non siamo venute a capo del problema ma ci piacerebbe discuterne con voi!
Come sempre potete ascoltarci ovunque (ma anche lasciarci una recensione e/o sostenere il nostro progetto con un simbolico caffè tramite ko-fi). In basso trovate anche la trascrizione dell’episodio.
Ascolta “#25 – Il paradosso delle dating app” su Spreaker.
Buon ascolto e buona lettura.
Trascrizione dell’episodio:
Nel 1994 nasce Kiss.com, nel 1995 Match.com diventando quest’ultimo all’epoca uno dei più importanti e famosi siti di dating, diremmo a Milano, ma in italiano “sito di incontri”.
I siti che si susseguirono poi furono molti, alcuni famosi a livello internazionale e altri solo per specifici Paesi.
Nel 2009 compare l’app Grindr e nel 2010 Scruff, entrambe usate dalla comunità gay maschile. L’attuale più famosa, Tinder, arriverà nel 2012, ovvero già 8 anni fa, introducendo lo swipe a destra o a sinistra per confermare o meno il match. L’app stima circa 50 milioni di utenti attivi, con una crescita esponenziale anche in ricavati. Si stima infatti che entro il 2024 il mercato generale delle dating app possa valere attorno agli 8/9 miliardi di dollari.
Le app e i siti per incontri però non sono una novità, potremmo tranquillamente dire che sono una digitalizzazione di altri strumenti usati prima di internet come gli annunci sui giornali, gli incontri per corrispondenza o gli speed date visti soprattutto in moltissimi film e telefilm. Di certo internet ha favorito molto questo ambito, con una massiccia diffusione. Infatti ora si possono raggiungere più persone in un paio d’ore su app, blog, social e siti che in anni di vita. E’ inutile, oramai la maggior parte delle coppie si è conosciuta su internet (non per forza su un sito di incontri o un’app – non che ci sia niente di sbagliato, sia chiaro), surclassando il classico conosciuti attraverso amici/colleghi, feste, scuola o università. Non che questi luoghi siano diventati sterili di connessioni, ma è chiaro che l’approccio moderno alle relazioni è decisamente cambiato.
È semplice bollare le dating app come strumento superficiale di appagamento istantaneo: messi davanti a una decisione basata quasi unicamente sulla prima impressione che ci genera una foto (magari una foto veramente brutta, come spesso accade) quante cose ci stiamo perdendo di quella persona? Quanto la stiamo sottovalutando/svalutando? E grazie, ma non è che un approccio in discoteca sia molto diverso.
Tutti vorremmo conoscere il nostro futuro partner in situazioni più romantiche che davanti a una birra scadente sui navigli. Incrociare lo sguardo di qualcuno a un concerto mentre stiamo vivendo un’epifania musicale, scontrarsi mentre stiamo vagando tra gli scaffali della nostra libreria preferita o in un museo quando veniamo colpiti da sindrome di Stendhal davanti a un’opera d’arte.
Ma la vita non è un film, bisogna adeguarsi e cercare di realizzare il proprio cortometraggio a basso budget, traendone il massimo.
Ve lo ricordate Catfish o stiamo veramente invecchiando solo noi rispetto a chi ci ascolta? Catfish era un serie su MTV (dai, almeno MTV spero ve lo ricordiate) in cui si indagava sulle relazioni nate e cresciute online. Il programma veniva coinvolto quando una delle due parti iniziava a nutrire dei dubbi sul perché l’altra non volesse un incontro (in alcuni casi le persone si sentivano online per ANNI senza mai vedersi) e si iniziava così a investigare su chi fossero e sui vari perché. I motivi erano tra i più disparati, molto spesso si mentiva sulla propria immagine, ci si nascondeva dietro foto di altre persone. Si smascheravano i motivi dietro, le bugie e si cercava di capire quali fossero le necessità di mentire.
Il programma è nato qualche anno fa, quando conoscere gente online era sì diffuso ma non sistematico e anzi, dire che si usciva con qualcuno conosciuto online faceva suonare sempre qualche campanello. Non vogliamo dire che anche ora la gente non menta sui propri canali, adesso siamo semplicemente un pochino più bravi a capire se si tratta di un fake e nonostante la sviluppata educazione digitale rischiamo comunque di caderci.
Il programma caratterizza un preciso periodo storico legato alla diffusione di internet come strumento di socializzazione. Stavamo tutti piano piano imparando a muoverci all’interno di un contesto sociale completamente diverso a quello a cui abituati fin da piccoli, le regole e le situazioni erano diverse e capire come coesistere all’interno di questo spazio potenzialmente infinito ci ha permesso di ottenere quanto abbiamo oggi a disposizione. Non sono mancati, ovviamente, negli anni diversi studi, articoli, video, programmi che diffondessero opinioni negative contro Internet e contro la sua capacità di deviare i giovani, allontanarli dalla realtà, dalla famiglia e dalla società. In quanto animale sociale l’uomo cercherà praticamente sempre di raggiungere il prossimo, formare una comunità o perlomeno una propria rete sociale e quando Internet ci ha permesso di interfacciarci non solo con i nostri compagni di scuola o vicini di casa, ma con potenzialmente tutto il mondo perché non cogliere l’occasione? Perché lasciar perdere la possibilità di trovare qualcuno con gli stessi interessi, qualcuno con cui condividere pensieri affini che magari non vengono colti o apprezzati così tanto allo stesso modo dalla cerchia sociale fisica che ci circonda?
Il programma Catfish era anche un riflesso della mole di pregiudizi e opinioni confuse che attorniava il mondo di Internet. Si parlava ancora di realtà virtuale, un luogo in cui costruirsi seconde e terze identità, un feticcio, un mondo in cui rifugiarsi, separato dalla realtà. Oggi nessuno parla di realtà virtuale in questi termini, è un concetto che oggi ci appare lontanissimo visto che online e offline sono praticamente interconnessi. Le nostre cerchie sui social sono sempre più dipendenti dalla realtà fisica (gli algoritmi ci segnalano realtà vicine a dove viviamo, eventi a cui parteciperanno i nostri amici, gli amici degli amici, ed è più probabile trovare su Instagram il nostro capo che uno sconosciuto di cui innamorarsi).
Le stesse dating app funzionano in maniera simile, sono tutte programmate sul nostro stile di vita e sul territorio in cui viviamo (Bumble non funziona senza localizzazione). Senza contare che la tecnologia è soltanto uno step intermedio, il vero date poi è laffuori, nel mondo reale, il fine ultimo è per forza di cose incontrarsi dal vivo. La nostra percezione può essere falsata dal fatto di vivere a Milano ma le dating app ci sembrano ormai “normalizzate” a tutti gli effetti e la paura di trovare malintenzionati, loschi figuri o personaggi fittizi che nascondono vite parallele non rientra affatto nell’esperienza comune di chi utilizza le dating app.
Questo non significa che non ci sia un discorso da fare per quanto riguarda l’“alienazione”, lo scollamento dalla realtà ma cosa molto più importante l’isolamento e la chiusura in se stessi. Questo però non riguarda strettamente le dating app ma quanto più la tecnologia o piuttosto cosa noi ci aspettiamo dalla tecnologia e quanto invece ci aspettiamo dalle persone.
Non è nuovo il concetto di società liquida, introdotto dal filosofo polacco Bauman. In sostanza, i legami tra le persone nella società moderna si sono allentati e sono passati da uno stato solido a uno liquido. La vita è diventata più frenetica, competitiva e di conseguenza più individualista. La pressione per il consumo, il successo e lo status hanno portato ad una sorta di “modello di autosufficienza” a discapito delle reti sociali allargate. No, non siamo qui a parlarvi del fatto che non ci sono più le famiglie di una volta ma è innegabile che la socialità è cambiata e lo diciamo da Milano, città dei single (il 45% sul totale delle famiglie); un dato decisamente superiore rispetto alla media italiana, che si ferma intorno a quota 32%. Se a questo aggiungiamo i mono-genitori la quota sale al 56% del totale.
Liquidità significa prima di tutto incertezza. Incertezza per la propria vita familiare, relazionale, lavorativa, economica ecc…e mai come durante questo 2020 ne siamo stati più convinti. Se siete dei millenial e parlate con i vostri coetanei saprete che una delle domande più terrificanti è: dove ti vedi da qui a 5 anni? La flessibilità ha certamente dei vantaggi ma non fingiamo che non ci siano anche delle enormi conseguenze emotive su questo cambiamento di paradigma.
Un altro sentimento comune nella società liquida è la solitudine. Specialmente nelle grandi città, dove per altro si ripropone con più urgenza il problema dell’allentarsi delle reti relazionali forti e intime.
Scrive Olivia Laing in “Città sola”: “La solitudine non è necessariamente legata a un’effettiva mancanza di compagnia – fenomeno che gli psicologi definiscono “isolamento sociale” o “deprivazione sociale”. Le persone che trascorrono la propria vita in solitudine non sono infatti tutte sole, ed è d’altro canto possibile provare un forte senso di solitudine stando in coppia o con gli amici. Come Epitteto scrisse quasi duemila anni fa: “Se un uomo è solo non per questo egli è anche isolato; se un uomo è circondato da molti, non per questo non è solo.””.
L’autrice, in questo saggio autobiografico sulla solitudine vista attraverso gli spazi di una città e le opere artistiche di alcuni esponenti contemporanei, ha vissuto qualche anno fa a New York per un periodo della sua vita che però ha coinciso con la rottura di una relazione, vivendo quindi una tra le città più caotiche al mondo con una sensazione di solitudine che la porta ad esaminare come questo aspetto sia talvolta paralizzante, alienante e sintomo anche di un malessere molto spesso causato da fattori ambientali e sociali che emarginano ciò che non è ritenuto adeguato. Laing si ritrova a vivere nella solitudine e nell’isolamento aprendosi solo grazie allo schermo del proprio computer, attraverso Twitter si aggiorna e afferma la sua presenza nel mondo. In uno dei capitoli racconta anche come ha cercato di conoscere delle persone per interesse personale attraverso Craigslist (un sito di annunci americano dove si può trovare veramente di tutto). Scrive Laing: “ Non conoscevo nessuno che potesse dire di amare Craigslist, ma a me stranamento risollevava il morale. La sfacciata ostentazione del bisogno, la varietà e la specificità dei desideri degli altri era molto più rassicurante e democratica se confrontata con la pretenziosità dei profili sui ben più asettici siti di appuntamenti”. Prosegue poi confermando che sì, è anche uscita con un paio di persone, ma che non ha voluto poi rivederle.
In tutto ciò, il cambiamento tecnologico ha portato a delle facilitazioni nel modo di comunicare e forse delle panacee per tutta questa ansia e insicurezza.
I social network ci hanno spalancato una prospettiva confortante, la prospettiva di una socialità senza troppo impegno. Parlare senza doversi rendere presentabili, senza uscire, senza dover rispondere a domande in tempo reale, tutto è mutuato da uno schermo. Parliamoci chiaro: è appagante e meno rischioso non dover per forza guardare qualcuno in faccia quando si prova a essere brillanti, intelligenti, desiderabili ecc… o all’opposto…quando si deve essere sgradevoli.
La tecnologia non ha soltanto reso facile ciò che un tempo era considerato una vile scorciatoia (iniziare e finire flirt in chat quando si è fidanzati, lasciare qualcuno al telefono o meglio non lasciarlo affatto, semplicemente sparire). No, la tecnologia l’ha reso anche tollerabile.
Sparisce dal nostro orizzonte degli eventi l’attesa, l’impegno, la difficoltà. E questo ha delle conseguenze emotive. Una delle parole in cui imbattiamo sempre più spesso è l’immaturità emotiva. Non siamo pronti per quella relazione, non è il momento giusto, non ce la sentiamo, non ho voglia di impegnarmi, non posso darti il giusto tempo, le giuste attenzioni, ho altre priorità e chi più ne ha più ne metta.
L’abbiamo fatto anche noi infinite volte. Proviamo ma poi si fugge. Ma non è un po’ come rimanere bloccati invece?
La semplicità e la velocità con cui ci siamo abituati a ottenere le cose vede la nostra impazienza applicata a qualsiasi cosa. Per quanto sappiamo che sia impegnativo costruire una relazione e che sia necessario investire energie e tempo da dedicare a una persona, preferiamo usare un’assurda quantità di tempo per provare a trovare una soluzione sfruttando i grandi numeri e le percentuali di possibilità. E’ irrazionale, ci sembra costi meno fatica e quindi ci scarichiamo un’app e iniziamo a giudicare mentalmente con chi ci piacerebbe o meno uscire. E’ corretto però sostenere che tutti quanti preferiscano usare questo metodo? Secondo un sondaggio del 2018 di BBC, le app sono lo strumento meno preferito tra gli inglesi di età compresa tra i 16 e i 35 anni. Uno studio su Management Science sul dating online nel 2017 evidenza il paradosso della scelta sottolineando che “aumentare il numero di potenziali match ha un effetto positivo per via di una maggiore scelta, ma anche un effetto negativo”.
È chiaro, il problema non sono le dating app. Anche se sì, conosciamo le obiezioni e le controobiezioni, le argomentazioni a favore e a sfavore perché le abbiamo passate in rassegna sulla nostra pelle e quella dei nostri conoscenti infinite volte, per infiniti racconti di date andati male. Analizziamole.
Siamo più propensi a lasciar perdere qualcuno, siamo più propensi a passare al prossimo flirt perché è comodo senza cercare di risolvere laddove possibile, non ci vogliamo impegnare perché non vogliamo cambiare la vita che abbiamo forse perché stiamo bene da soli e abbiamo paura di rimanere intrappolati o di sacrificare la stabilità che ci siamo costruiti.
L’approccio mediato della tecnologia è utile perché ci permette di raggiungere più persone ma forse è anche da codardi? Ci sta rendendo meno coraggiosi?
Ammettiamolo, chi ha voglia di buttarsi su uno sconosciuto in un bar o con un amico o con il vicino di casa, un collega, rischiando una figuraccia quando puoi proporti virtualmente con la certezza di avere almeno una chance?
Sì, la tecnologia ci fa da ancella. Una sorta di stampella emotiva ma cosa c’è di male in qualcosa di più facile? Siamo sicuri che quello che è più facile però ci faccia sentire meglio?
Parliamo della sindrome dell’evitamento ovvero il ghosting. Abbiamo già dedicato una puntata a questo fenomeno che sembra svilupparsi in varianti sempre più fantasiose, abbiamo aneddoti a non finire.
All’apparenza è più facile lasciar andare qualcuno semplicemente sparendo. Ma chi fa sentire meglio? La persona che lascia si sente un inetto, chi viene lasciato muore di paranoia pensando a cosa ha sbagliato.
Il ghosting avviene principalmente per l’incapacità di esporsi per chiudere qualcosa, lasciando sempre più rapporti svanire nel nulla per la sola paura di affrontare una conversazione che mette a disagio (che poi in realtà si tratta solo di inviare un messaggio sull’app in cui ci si è conosciuti). Una relazione si può ottenere con un po’ di fortuna o investendo parecchio tempo ed energie per riuscire. Prima bisogna fare swipe a destra o sinistra per un po’ di tempo, poi appena si trova qualche match interessante scremare anche questi con delle conversazioni che ci possono più o meno coinvolgere, dopodiché vedersi effettivamente e da lì capire se proseguire o ricominciare tutto da capo perché siamo anche magari stati ghostati nel frattempo. Si palesa così quella che viene definita la “dating app fatigue” ovvero la stanchezza causata da queste app. E’ innegabile che c’è uno sforzo considerevole in tutti questi passaggi, con il risultato finale di dover ricominciare da capo. Non è solo una questione fisica, ma soprattutto mentale. Ci si confronta costantemente, ci si espone e ci si deve reinventare in continuo per capire come meglio farsi conoscere dalla nuova persona di turno che abbiamo di fronte. Il carico mentale non è da poco e non sorprende che spesso si finisca con il cancellare l’app per un periodo di pausa.
Indicare internet come causa di un fenomeno sociale è troppo semplicistico. Puntare il dito contro un frammento che compone le nostre realtà non ci permetterà sicuramente di capirci qualcosa in più. Non possiamo essere alienati e allo stesso tempo conversare con così tante persone, non ha senso colpevolizzare uno strumento né la nostra capacità di adeguarci.
Guardando Her, il film con protagonisti Joaquin Phoenix e la sola voce di Scarlett Johansson, non ci si stupisce di una relazione con un sistema operativo, il sentimento viene percepito come vero, reale e presente nonostante non sia tangibile e presente nella concreta realtà per due persone. Il film è uscito nel 2013, i siti di appuntamento esistevano già e le app avevano appena fatto capolino tra le diverse proposte digitali. La narrazione ci coinvolge nello sviluppo di un legame che ci appare credibile, che ci porta a pensare che non sia nemmeno così strano ed è tutto frutto di un cambiamento sociale che già nel 2013 non concepiva una storia simile come così assurda.
Il problema è che non riuscire a distinguere un sentimento reale – su cui investire – da ciò che è solo aleatorio porta a relazioni che a volte sono soltanto il riflesso di noi stessi, ci preoccupiamo soltanto di come l’altra persona riesce a farci sentire, ecco perché c’è così tanta difficoltà a instaurare relazioni durature, a volte ci perdiamo nel solipsismo e abbiamo zero tolleranza per i difetti altrui. Oppure cerchiamo persone che si incastrino nella nostra vita anziché adattare la nostra vita agli altri. Tante volte ho fatto e sentito discorsi che iniziavano con: “una relazione adesso non fa parte del piano”. Ma le persone non esistono per accontentare le nostre esigenze come degli oggetti, dei comodini o delle sedie per il nostro salotto.
Non abbiamo soluzioni, almeno, io non ce l’ho. Frustrazione, insicurezza, paura sono sentimenti che fanno parte delle nostre vite. L’ansia e la pressione per non essere riusciti a trovare qualcuno e doverlo fare non aiutano. Ma l’unica risposta che sono riuscita a darmi in questi mesi è quella di rischiare di più. Troppo spesso ci nascondiamo, dissimuliamo e cerchiamo di evitare di metterci in gioco sentimentalmente, anche se poi ci lamentiamo che non ci vuole nessuno. Ma quanto abbiamo veramente investito? Spesso mettiamo prima il lavoro, la quotidianità, le piccole abitudini che di danno stabilità, dicendo che non abbiamo tempo per gli altri. Ma se non vogliamo rischiare nulla, non avremo nulla o comunque avremo molto poco. Se non vogliamo dialogare con gli altri e speriamo che gli altri ci leggano nella mente e capiscano le nostre intenzioni da un emoji, non otterremo molto. Se non vogliamo investire tempo, dedicare tempo, non avremo molto in cambio. E questo a prescindere dalle relazioni amorose. Ma anche per le relazioni in generale, perché purtroppo anche le amicizie stanno soffrendo di questi problemi.
A proposito di Her, che ritraeva la relazione tra un uomo e un software, ecco le parole di Sherry Turkle che insegna Sociologia della scienza e della tecnologia all’MIT di Boston: “Sopraffatti, ci siamo lasciati attrarre da connessioni che sembravano poco rischiose e sempre disponibili: gli amici di Facebook, gli avatar. Se comodità e controllo continueranno ad essere le nostre priorità, saremo tentati dalla robotica sociale, che ci promette divertimento come fanno le slot machine nei confronti dei giocatori d’azzardo; macchine programmate per farci continuare a giocare. Nel momento robotico dobbiamo stare attenti che la semplificazione e la riduzione delle relazioni continuino ad essere qualcosa di cui lamentarsi, e non diventino invece ciò che ci aspettiamo o addirittura desideriamo. Ho deciso di concentrarmi sulle nostre vulnerabilità invece che sui nostri bisogni. I bisogni implicano che dobbiamo avere qualcosa; l’idea di vulnerabilità invece lascia moltissimo spazio alla scelta. Si ha sempre la possibilità di diventare meno vulnerabili, più evoluti. Non siamo immobilizzati. Se vogliamo avanzare insieme – una generazione insieme all’altra – dobbiamo accettare la complessità della nostra situazione. Abbiamo inventato tecnologie che sanno ispirare e potenziare, eppure abbiamo permesso loro di sminuirci. La prospettiva di amare o esseri amati da una macchina cambia ciò che è l’amore”.
ma sempre la professoressa Turkle ha forse un’altra riflessione più importante per noi: “una buona terapia ci aiuta a sviluppare un senso di ironia verso la vita, così che quando cominciamo a ripetere i vecchi e inutili schemi, una vocina interiore ci dica: «Eccoti di nuovo lì; dai, smettila, puoi fare qualcosa di diverso»”.
Se ricadiamo in alcuni dei comportamenti che abbiamo descritto nella puntata di oggi, possiamo fare qualcosa di diverso. O almeno è quello che ci auguriamo. Oppure ci rivediamo al gattile tra vent’anni che, a ben rifletterci, va bene lo stesso.
https://www.bbc.com/worklife/article/20191203-should-i-delete-tinder-these-millennials-think-so
https://www.statista.com/outlook/372/100/online-dating/worldwide