Chiunque di noi si è chiesto più di una volta “ma perché non faccio lo youtuber? Perché mi ostino a studiare e continuare a faticare quando basta aprire un account social?”.
Perché la professione del content creator è associata a guadagni alti ma anche immeritati per mancanza di talento o un basso carico di lavoro. Ma chi decide questi parametri e poi…è davvero così? Per approfondire abbiamo deciso di intervistare anche Francesca Crescentini, in arte Tegamini, che da anni influenza forte in ambito librini, indumentini, gattoni e tutti quei campi in cui decide di investire la sua fantasia e invettiva.
Con lei abbiamo affrontato anche un tema più spinoso ovvero: qual è il ruolo pubblico dell’influencer? Spesso si chiede a gran voce a quelle che sono percepite come personalità pubbliche di prendere posizioni politiche nette sull’attualità, proprio in virtù del grande seguito e della loro capacità di “muovere” le coscienze, e non solo di far aprire i portafogli. Non sarà, però, controproducente trasformare delle persone in megafoni per delle cause che non gli appartengono? Dei porta bandiera temporanei che non hanno nessun valore aggiunto?
Trovate questi e altri spunti di riflessione nella puntata n.22 del podcast che, come sempre, potete ascoltare su tutte le piattaforme di ascolto.
Ascolta “#22 – Anche gli influencer pagano le bollette” su Spreaker.
Trascrizione di parte dell’episodio (esclusa la chiacchierata con Francesca che è stata fatta LIVE):
Vi sarà capitato di imbattervi in quei video o articoli in cui si cerca di stimare quanto guadagni uno youtuber o un influencer, delle vere e proprie classifiche che calcolano la stima dei guadagni ottenuti dall’attività sul web, basandosi in maniera più o meno accurata – spesso, molto meno accurata – sul numero di follower e sulla produzione di contenuti.
Chiunque di noi si è chiesto più di una volta “ma perché non faccio lo youtuber? Perché mi ostino a studiare e continuare a faticare quando basta aprire un account social?”. Quello che magari non vi chiedete quasi mai è quanto guadagni il vostro parrucchiere, un amministratore delegato, un impiegato o un insegnante e non mettete mai in discussione che il loro lavoro preveda un guadagno, anche se probabilmente sproporzionato alla media (dubito che un pizzaiolo qualunque di Poggio Lastra – il nome l’ho trovato vagando cinque minuti su Maps, passatempo consigliatissimo – guadagni quanto un pizzaiolo stellato qualunque). Con persone che di professione possono tranquillamente dire di fare lo youtuber, l’influencer o il content creator invece ci viene più spontaneo magari pensare che il guadagno è sproporzionato rispetto al quanto lavoro percepiamo venga svolto. Perché il problema sta proprio qui, noi percepiamo solo una parte dell’insieme, una foto che osserviamo per pochissimi secondi, un video o un audio di qualche minuto che magari ha richiesto, spesso, ore di lavoro. O forse il problema è che in fondo in fondo pensiamo davvero che l’influencer non sia un vero lavoro e chi lavora con i social e con il web in generale non sia davvero un professionista ma che stia arrotondando con un passatempo in cui è bravino.
Facendo un’attività online, dove tutto è condiviso, ci sembra quasi scontato sapere, o cercare di sapere, tutto quello che c’è dietro una persona. L’approccio è a volte quello che si ha con l’arte contemporanea “eh sì, avrei potuto farlo anch’io” e quello che a me piace rispondere è “sì, però non l’hai fatto”. Per abbracciare appieno questo concetto infatti serve anche la consapevolezza che in arte i cambiamenti dirompenti che avvengono nel presente rappresentano spesso la reazione rispetto al passato, la rottura con la tradizione.
Questo ragionamento – a cui uno strabiliante numero di persone si adegua – banalizza delle attività che pensiamo siano facili da replicare, ma che – guarda caso – quando proviamo a farle noi non ci calcola manco nostra zia Pinuccia. Mentre se le fa qualche content creator – che invece sa cosa sta facendo e fa della sua attività un lavoro – in qualche modo riesce a far emergere quel contenuto meglio, pur nel mare magnum di informazioni nel quale navighiamo a vista ogni giorno. Per capirci: siamo tutti bravi a dire “anch’io posso fare quella foto, che ci vuole?”. E puntualmente quando qualcuno cerca di scimmiottare il lavoro degli influencer si vede. Come quelli che fanno finta di essersi fatti inviare i prodotti gratis e taggano l’azienda, ringraziandola, quando in realtà se li sono comprati da soli.
Sponsorizzare qualcosa ed essere credibili è ciò che spesso rende questo lavoro valido agli occhi di chi guarda, ma per arrivare a dare un senso e una narrazione a quello che si fa è necessario molto tempo, energia e notevoli capacità organizzative. Tra gli aspetti che nessuno vede ci sono mail lunghissime, chiamate incocludenti, brief che hanno la chiarezza di un manuale di analisi 3. E questo ve lo può dire anche Valentina che non ha richieste continue di aziende (per ora), ma che al contrario a volte si pone nei panni di un’azienda che ha necessità di collaborare con qualcuno.
Per quanto un prodotto possa essere uguale per tutti quanti, quando ci si rivolge agli influencer non si può pensare che questi siano tutti uguali, che siano la stessa persona e che facciano le stesse cose indistintamente. Inviare un kit di prodotti per la cura del giardino a qualcuno che in casa ha piante di cemento probabilmente non risulterà efficace, ma non solo perché il messaggio che passerà sarà evidentemente molto finto, ma soprattutto perché il pubblico che segue quella determinata persona non si aspetterebbe mai di veder parlare di un prodotto simile. Sarà capitato a molti di fare pensieri tipo “Ma perché a questa persona che ha sei gatti hanno appena inviato un kit per prendersi cura della propria cocorita?” ed è qui che la narrazione perde la sua efficacia. L’influencer potrebbe anche aver accettato la collaborazione perché le necessità di ognuno restano personali, ma un’azienda che agisca in questo modo non ha minimamente tenuto conto della nostra e vostra intelligenza.
La parola influencer è diventata talmente abusata da aver assunto vagamente l’accezione negativa di “vegano”, tanto che si teme di identificarsi con questi termini per paura di scatenare qualche battutaccia o polemichetta sterile. Imprenditrice digitale cit., content creator, ininfluencer per i più rebel, sono diventate le varianti a cui si cerca di fare appiglio per far sì che la propria professione non venga vista come una fortuna, una manna dal cielo che li ha salvati da una vita ordinaria. Spesso sono le aziende stesse ad avere poca sensibilità a riguardo e agiscono rivolgendosi a queste persone come fossero un semplice angolo in cui sfogare il proprio messaggio per cercare di ottenere una grande visibilità senza curarsi del contesto, un po’ come fossero un canale televisivo dove si susseguono messaggi anche molto diversi tra loro ma che potenzialmente funzionano perché il mezzo è nato per essere fruito in questo modo. Delle semplici vetrine per i loro prodotti.
Ma l’influencer non è soltanto qualcuno che vende qualcosa, anche se ormai ci hanno abituato a pensarla così. È un mondo intrecciato a quello della pubblicità ma che non vive solo di quella. Guardereste una televendita per 24h al giorno? Chi crea contenuti è qualcuno capace di coinvolgere, farsi ascoltare, far interessare le persone alla sua storia, paradossalmente più è banale la tua storia e più è difficile. Uno dei motivi principali dell’alto guadagno – in alcuni casi – è proprio il carisma, una risorsa che scarseggia. Non è facile proprio perché sui social adesso ci stanno davvero tutti trovare qualcuno di distinguibile, con un proprio tono di voce e un volto riconoscibile. Soprattutto perché a livello estetico i contenuti finiscono per somigliarsi tutti, pensiamo ad Instagram dove le foto di luoghi esotici e lontanissimi da noi è diventata stereotipata (hashtag foto con l’altalena ai caraibi). Lo stipendio di qualcuno si basa anche sulla non sostituibilità del suo talento. Pensiamo al guadagno di sportivi, modelle, attori e personaggi dello spettacolo. Guadagnano tantissimo perché dispongono di risorse quasi uniche, in altre parole: pochi sono come loro. Di solito a influire è anche il fattore tempo, soprattutto per gli sportivi. Più si riduce la finestra temporale in cui rimangono competitivi, più alto è il guadagno.
Far crescere una community non è un compito semplice e chi ci riesce è principalmente perché ci mette impegno, costanza, testa e lo fa con obiettivi precisi e con un valore preciso. Quello che spesso dimentichiamo è che è vero che gli influencer forniscono informazioni che magari sarebbe più complicato reperire normalmente. Penso a tutti quei prodotti che sono fuori dalla pubblicità tradizionale come tutta la rete zero waste ma anche il mondo dei libri. Di queste persone ci fidiamo, dedichiamo a loro il nostro tempo per imparare, svagarci o trovare delle soluzioni. Stare online per più di vent’anni ci ha insegnato che internet può essere il far west, ma soprattutto che questo far west è praticamente quasi sempre gratuito (anzi, solo negli ultimi anni stiamo lentamente capendo che tutti hanno bisogno di pagare le bollette e forse è giusto supportare il lavoro di queste persone se vogliamo continuare a consultare i loro testi, video o immagini).
Perché quindi continuiamo a stupirci che gli influencer chiedano dei soldi per promuovere qualcosa? Perché nonostante tutto fatichiamo ancora a pensare che sia un lavoro come un altro e che il sistema lavorativo a cui siamo abituati non può essere applicato a tutti gli aspetti di un mercato che sta cambiando drasticamente. Dall’editoriale di Federico Ferrazza, direttore, del numero di marzo di Wired: “Nello scorso secolo, infatti, le contrattazioni sindacali, oltre alle tutele dei diritti dei lavoratori, hanno considerato un’unica variabile nella definizione del salario: il tempo. Oggi – che per molti lavori non è necessario più recarsi in azienda – ha ancora senso continuare a parlare solo di tempo (ore settimanali, tariffe orarie e così via) per determinare lo stipendio minimo? Non è forse più ragionevole, in maniera graduale, a seconda dei lavori e mantenendo le tutele, iniziare a parlare di obiettivi e risultati?”. Nello stesso numero in un articolo di Chiara Oltolini si legge che attualmente il mercato degli influencer vale 8 miliardi di dollari, aumentato di circa 15 volte rispetto al 2015 (appena 5 anni fa) e che si preveda raddoppi entro il 2022; in Italia si aggira sui 250 milioni di euro contro i 180 del 2018 con, quindi, un aumento del 34%.
Come sottolineano questi dati gli investimenti sono ingenti, i brand che scendono in campo sono tra i più disparati, a partire dalle grosse aziende luxury a piccoli artigiani con attività locali. In base alla propria capacità economica si puntano diversi profili con scopi differenti. I numeri, ad ora, la fanno ancora da padrona e si cerca sempre di collaborare con chi ha più follower con l’idea che la risonanza sia maggiore. Il problema è quando degli influencer creino dei profili comprando follower o commenti che vengono immediatamente notati perché la percentuale di conversione è decisamente bassa rispetto a quanto ci si possa aspettare. Data una campagna promozionale le aziende chiedono alle persone di condividere i numeri che un post o una story ha generato su cui baseranno la decisione se continuare o meno la collaborazione. Non sempre l’obiettivo è quello di convertire in acquisto, sono anche in atto campagne di visibilità soprattutto per marchi che difficilmente potrebbero raggiungere un preciso target in quanto l’acquirente abituale è potenzialmente più vicino ai metodi di marketing tradizionale.
Gli influencer sono quindi dei canali tv o radio? Solo se li trattate a questo modo. L’approccio di ognuno, come dicevamo, è personale ed è il vero valore a cui un’azienda dovrebbe puntare. Pensare di rivolgersi solo a chi ha oltre un determinato numero di follower ma senza conoscerne il lavoro rischia di essere poco proficuo per l’azienda, ci potrebbero addirittura essere delle perdite economiche perché i follower e le interazioni potrebbero essere falsi. Buttarsi sugli influencer di instagram perché è quello che tutti stanno facendo non significa che sia la strategia migliore per il proprio benessere economico. La considerazione di collaborare con qualcuno deve anche tenere per valida la creatività e l’apporto personale che una persona metterà nel diffondere un determinato messaggio, altrimenti restano, appunto, dei canali radio e tv.
Ricevere cose in regalo, essere pagati per parlare di un servizio o di un prodotto richiede tempo alle persone e, assurdo ma vero, del lavoro. Parlare con l’azienda, capire il messaggio, decidere se condividerne i valori, documentarsi, definire come parlarne, fare delle story, delle foto, scrivere una copy, vedere se per l’azienda sia ok o se manchino dei messaggi importanti, condividere il tutto, gestire tutti i commenti e rispondere alle domande, inviare un report con i dati richiesti, rincorrere la fattura. Sono tutte azioni che non richiedono proprio un’oretta di tempo e che, anzi, molto spesso vengono protratte per giorni perché potrebbero esserci dei cambiamenti, delle modifiche necessarie, fermare temporaneamente la cosa e poi riprendere il tutto dopo anche mesi di fermo. Il tutto in una situazione di precarietà perché il budget potrebbe non esserci, il lavoro potrebbe completamente saltare o, semplicemente, finire stressati per parecchio tempo da aziende con idee poco chiare e strutturate che lasciano l’intera narrazione e definizione della promozione a chi queste informazioni dovrebbe riceverle per poter programmare la sua parte di lavoro.
Sentiamo già dal fondo della stanza qualcuno urlare: ma che ce frega, ci sono cose più importanti, c’è crisi, signora mia. Eh. Però legittimare un lavoro è importante anche per regolamentarlo. Sì, perché fino a che pensiamo sia solo un passatempo, significa che non c’è l’obbligo di pagare le tasse. Più ci ostiniamo a considerare una categoria di lavoratori “fumosa” tanto più saranno le complicazioni burocratiche e la poca trasparenza.
Definire gli influencer dei lavoratori ha portato a definire un sistema di regole che oggi conosciamo bene o male un po’ tutti: l’obbligatorietà di segnalare sempre una collaborazione pagata e una promozione con determinati hashtag: AD/GIFTED/AFFILIATED ecc…Se non ci fossero state queste precisazioni, saremmo ancora in un mercato sommerso.
Tiriamo le fila. Una massima che mi sento sempre di citare è: “Le persone non sono sul web per parlare delle aziende ma per parlare tra loro delle aziende”. L’influencer quindi diventa un intermediario fondamentale per tutti gli utenti che trascorrono la maggior parte del loro tempo online e la cui dieta mediale è composta principalmente dai social. Questo è vero sia dal punto di vista commerciale (i brand usano gli influencer come veicolo pubblicitario con quel target che è ormai poco investito dalla pubblicità tradizionale) sia da un punto di vista politico e umano. Gli influencer non sono soltanto “venditori”. Da qui la richiesta – ormai sempre più presente nel dibattito social – di farli esporre su questioni di enorme rilevanza pubblica. La questione è: avete il potere di arrivare a milioni di persone, perché non usate i vostri canali per lanciare messaggi civici e parlare di attualità?
È successo recentemente per l’omicidio di George Floyd. Al momento in cui stiamo registrando sono ancora in corso le proteste violente del movimento #blacklivesmatter negli Stati Uniti. Oltreoceano nella nostra penisola è stato chiesto ai Ferragnez, ormai due celebrità, di esporsi sulla questione per sensibilizzare e informare il loro pubblico. La dichiarazione di Fedez a riguardo è stata questa:
“Io e mia moglie non ci reputiamo paladini di nulla, non siamo e non ci sentiamo migliori di voi. In questi anni ho sbagliato tante volte ma sto cercando di migliorare nel mio piccolo per essere giorno dopo giorno la versione migliore di me stesso”
A prescindere dal fatto che trovo veramente assurdo pretendere che ognuno abbracci delle cause a comando, forse occorrerebbe chiedersi anche di cosa deve parlare un influencer? Legittimo aspettarsi più senso civico e più responsabilità sociale da parte degli influencer ma ricordate che siamo noi a dare rilevanza e visibilità alle persone di valore che secondo noi portano avanti cause a noi care. Mi sembra un po’ controproducente oltre che ipocrita pretendere che persone che non si sono mai interessate a certi argomenti inizino a parlarne solo perché hanno visibilità e gli viene chiesto. È un’operazione al confine con l’appropriazione culturale e rischia di fare più danni che altro.
Diversa è la questione del non esporsi anche per cause che in teoria sulla carta ci riguardano. Famosissima è la frase di Michael Jordan “Anche i repubblicani comprano le sneakers”, in risposta al rifiuto di sostenere la candidatura al senato di un giovane democratico nero contro un repubblicano dichiaratamente razzista e controverso. Molti hanno additato la scelta di Jordan a motivi economici: esporsi pubblicamente sulla questione razziale avrebbe potuto fargli perdere una fetta di mercato importante all’epoca. Mentre MJ ha mantenuto intatta la sua reputazione di eroe indiscusso e unanimemente elogiato.